mercoledì 11 maggio 2016

Caccia alle streghe



 
Un pericolo strisciante si aggira per l’Europa. Un pericolo nuovo e a un tempo vecchio, che sembra pervadere piano piano le menti, lo sguardo, le parole di tutti noi, ma lentamente, senza che quasi ce ne accorgiamo. Si insinua nei discorsi ufficiali come in quelli tra la gente comune, tra le immagini di giornali, Rete e televisione. È ipocrita, non si dichiara mai apertamente, ma lavora sotto traccia. Si tratta di quel mai dichiarato, ma sempre più spesso praticato accostamento tra immigrazione e terrorismo. Un binomio che sembra accontentare tutti, con la sua semplificazione, che non è semplicità sia ben chiaro, ma solo riduzione a slogan, a banale equazione di un problema quanto mai complesso.
È semplice dire che il terrorismo si annida sui barconi, nei campi profughi, nelle colonne infami (per chi le causa, non per chi le vive) dei dannati della terra e della guerra. Da un lato consente di avviare politiche repressive, forme di esclusione, riduzione dei diritti; dall’altro di non guardare in faccia la realtà e di non cercare di comprendere le cause di tanta violenza. E non importa che la maggior parte degli attentatori siano nati e cresciuti in questa società occidentale che si ritiene superiore alle altre. Meglio volgere lo sguardo all’esterno.
Molti antropologi hanno affrontato il tema della stregoneria e la maggior parte è giunta alla conclusione che è utile a una comunità pensare alle streghe. Utile perché le accuse di stregoneria in fondo propongono la visione di un “noi” buono e di una malvagità che sta all’esterno della comunità, che è della strega. In questo modo tutte le tensioni interne vengono incanalate verso un nemico che sta fuori, che è diverso. In caso contrario bisognerebbe guardarsi dentro, fare i conti con sé stessi e forse scoprire che si è ciò che si pensa di essere.
È lo stesso meccanismo applicato oggi da certi governi, partiti, movimenti, che preferiscono credere alla strega dell’immigrato terrorista, che guardare nella pancia del Vecchio continente e provare a scoprirne le contraddizioni. Piangere e contare solo i proprio morti, non quelli causati da noi, altrimenti si scopre che il saldo è in attivo per gli altri. Sorvolare sulle discriminazioni continue e sulla violenza esportata da decenni, da secoli, sullo sfruttamento di risorse altrui. Questo è il modo per convogliare tutte le colpe sul capro espiatorio più debole, già vessato dalla storia e ora anche dagli interessi politici di qualcuno.
Attenzione, non facciamoci incantare dalle sirene dei cacciatori di streghe. Guardiamo negli occhi la realtà, magari allontanandocene un po’ per avere una visione più aperta. Nessuno nega che in alcuni casi l’accoglienza sia difficile, così come la convivenza, ma la demonizzazione, l’esclusione, la chiusura non sono le soluzioni, non sono soluzioni, solo un bieco gioco sulla pelle di chi già soffre. Perché, come scriveva Arthur Rimbaud: «C’è infine, quando si ha fame e si ha sete, qualcuno per scacciarvi».

Nessun commento:

Posta un commento