venerdì 23 maggio 2014

22 anni fa






22 anni fa 400 chili di tritolo uccisero Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo.
Il ricordo di ciò che è accaduto è legittimo e necessario. Il ricordo di quei momenti deve restare scolpito nella carne e nel sangue di un paese che non può e non deve dimenticare. Ma Giovanni Falcone iniziarono a ucciderlo molto prim
a del 22 maggio 1992. Giovanni Falcone iniziarono a ucciderlo lentamente, isolandolo, diffamandolo, ostacolandolo. Lo accusarono di “collusione con i socialisti” quando accettò la carica propostagli da Claudio Martelli, allora vicepresidente del Consiglio e ministro di Grazia e Giustizia, di dirigere la sezione Affari Penali del ministero. Iniziarono a ucciderlo quando lo accusavano di stare troppo in televisione o di presentarsi sui luoghi dei delitti non prima di essersi assicurato che ci fossero le telecamere. Lo isolarono quando alle elezioni dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura del 1990 venne candidato per le liste collegate "Movimento per la giustizia" e "Proposta 88", ma non fu eletto. Lo isolarono quando Leoluca Orlando lo accusò di aver "tenuto chiusi nei cassetti" una serie di documenti riguardanti i delitti eccellenti della mafia. Lo isolarono quando al Maurizio Costanzo Show gli dissero “non mi piace che stai nel palazzo”, dopo che Falcone aveva diretto la sezione Affari Penali e considerava necessario cambiare le istituzioni dal loro interno. Lo isolarono quando i vicini di casa lamentavano il fastidio delle sirene delle auto di scorta e lo invitavano ad andare a vivere lontano per non disturbare e mettere a rischio la città. Lo attaccarono diversi esponenti della cosiddetta “cultura antimafia” dell’epoca, accusandolo di essere un furbetto, pronto a sfruttare ogni occasione per fare carriera, mettersi in mostra, avere potere. E in ultimo iniziarono a ucciderlo quando dopo l’attentato fallito all’Addaura (misero del tritolo nelle vicinanze della casa che aveva preso in affitto per l’estate, ma la bomba non esplose) tutti, a destra, sinistra, centro e nel movimento antimafia stesso (come scrive anche Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione Antimafia negli anni ’90) dissero che quell’attentato l’aveva architettato lui stesso, per avere visibilità e mostrarsi martire.
Falcone ha combattuto per tutta la vita contro il luogo comune del “se sei ancora in vita, nonostante la criminalità organizzata ti voglia morto, vuol dire che qualcuno ti protegge”. Eppure chi crede questo, senza accorgersene, propugna l’infallibilità della mafia.
Una ragazza gli chiese: “Lei dice che si muore perché si è soli, giacché lei fortunatamente è ancora fra noi, chi la protegge?”
E lui rispose: “Questo significa che per essere credibile bisogna essere ammazzati in questo paese?”
Voglio ricordare Giovanni Falcone e quello che ha fatto durante la sua vita difficile e piena di coraggio. Voglio ricordare però anche come è stato trattato durante la sua vita. La santificazione post mortem è un esercizio sterile se non si comprende la grandezza di un uomo quando è lì davanti a noi. Quando è in vita e può cambiare, con il suo talento, con le sue capacità e conoscenze, il corso delle cose.
Qui http://goo.gl/pfV174 il mio ricordo di Giovanni Falcone. (Roberto Saviano)

sabato 10 maggio 2014

Una sorella per il Sole


#‎BreakingNews‬ Grande scoperta! Abbiamo trovato la prima sorella del Sole!
Fin da quando l'uomo ha capito come si formano le stelle ci siamo chiesti se il Sole avesse delle sorelle e dove queste stelle si trovassero nella Galassia.
Oggi sappiamo con certezza che il Sole non è nato da solo, ma molto probabilmente ha iniziato a brillare in una gigantesca nube molecolare, insieme ad altre centinaia se non migliaia di stelle sorelle. Il problema era trovarle...
Un gruppo di ricercatori dell'università del Texas, guidati da Ivan Ramirez, ha finalmente trovato una risposta, e quella risposta è HD 162826!
Remirez e i suoi colleghi sono riusciti in un'impresa difficilissima, ma capire come abbiano fatto è relativamente semplice!
Siccome si sono formate dalla stessa nube, queste stelle sorelle possiedono tutte la stessa esatta composizione chimica, la stessa età e formano quello che si chiama un "ammasso aperto", come le Pleiadi, un'associazione temporanea di stelle destinata a dissolversi con il passare degli anni. Tuttavia è passato talmente tanto tempo dalla formazione del Sole (4,5 miliardi di anni circa) che l'ammasso è ormai da tanto tempo disperso, e le sorelle del Sole sono ormai sparse per la Galassia intera.
Gioca però a nostro favore la numerosità dell'ammasso: se le stelle erano tante allora può anche darsi che qualcuna di loro non si sia allontanata più di tanto dal Sole, e ne abbia condiviso il percorso nella Galassia fino ai nostri giorni. È una possibilità che andava verificata. Se si considera il volume della Galassia e la velocità di dispersione di un ammasso aperto, si ottiene che entro 100 parsec dal Sole potrebbero esserci fino a 2-3 stelle sorelle!
I ricercatori negli anni hanno costruito un campione di stelle con composizione ed età simili a quelle solari, mentre altri studi hanno ricostruito "al contrario" le orbite delle stelle che sembravano avere la stessa orbita del Sole nella Galassia, utilizzando dei modelli molto raffinati.
I ricercatori di Austin hanno infine unito questi due approcci, estraendo un campione di 30 possibili candidate. Ulteriori analisi di altissima precisione sulla "firma" chimica di ciascuna stella hanno ristretto il campione a un solo candidato: appunto HD 162826, poco più massiccia (15% in più) e calda del Sole.
Questa stella ha la stessa identica composizione chimica solare, la stessa età e possiede un'orbita che in 4 miliardi e mezzo di anni non la ha mai portata a più di 100 parsec circa dal Sole. Una vera e propria "compagna di cucciolata".
Ora gli astrofisici sono in grado, ricostruendo le orbite, di scoprire dove il Sole è nato e quali ambienti ha attraversato nella sua storia, risolvendo non pochi interrogativi...
Ricordate il lancio del satellite europeo GAIA a dicembre? La sua astrometria ad altissima precisione su di un campione immenso di stelle (circa un miliardo) fornirà letteralmente un diluvio di dati, tra i quali chissà quante altre stelle sorelle aspettano di essere scoperte.
Perché è così interessante cercare una sorella del Sole? Perché potrebbe avere in comune con il Sole non solo la nascita, ma anche l'evoluzione: un sistema planetario, dei pianeti rocciosi... È scientificamente dimostrato che le molecole organiche possono viaggiare per centinaia di anni luce indisturbate. E queste stelle sono tutte partite da molto, molto vicine. Chissà quali mondi ospitano, chissà se qualcuno non stia cercando contemporaneamente a noi le sorelle perdute della propria Stella!
Cieli sereni!
-Lorenzo

sabato 3 maggio 2014

Ecco le scenografiche immagini scelte dalla Nasa per celebrare il ritorno della trasmissione Cosmos

Cosmos, la leggendaria serie di documentari sull’Universo presentata da Carl Sagan e in onda negli anni ’80 in Italia all’interno di Quark si rinnova e, da ieri sera, è in onda anche in Italia su National Geographic Channel (canale 113 di Sky) col titolo di Cosmos: Odissea nello Spazio.
In occasione dell’inaugurazione della nuova trasmissione di divulgazione astronomica, la Nasa ha riproposto (rendendolo noto attraverso un tweet) un intero album di immagini, alcune inedite, dei più affascinanti scorci dello Spazio inquadrati da potenti telescopi spaziali e da diversi satelliti. Dalle supernovae più brillanti alle nebulose più fertili di giovani stelle, passando in volata sulla superficie dei pianeti più misteriosi del Sistema solare, ecco tutti gli scatti in questa bellissima gallery.
Nella foto un brillamento stellare, qui in una rappresentazione artistica (Casey Reed/Nasa)Le foto spaziali che non avete mai visto (© Casey Reed/Nasa)

venerdì 2 maggio 2014

Capacità di problem solving e capacità coltivate dall’apprendimento scolastico.


Capacità di problem solving e capacità coltivate dall’apprendimento scolastico. Ancora PISA 2012

La lettura dei dati OCSE-PISA può essere una fonte importantissima per comprendere e motivare le capacità dei giovani, a partire dalla scuola. Infatti, nel problem solving gli studenti italiani hanno superato di 10 punti la media PISA e si piazzano al 15° posto. A differenza che in altri test più tradizionali, i quindicenni italiani dimostrano di avere pensiero critico e di saper elaborare soluzioni.
La nuova tornata dell’indagine OCSE-PISA 2015 è già quasi pronta, ma i dati che PISA 2012 ha raccolto producono approfondimenti specifici di grande interesse; infatti, mentre si attende l’ultimo rapporto relativo alla “Financial literacy”, l’OCSE mette a disposizione i risultati relativi alle prove di problem solving che sono state prodotte dagli studenti, che hanno svolto i test di PISA 2012 su computer.

Finalmente una buona notizia: abbiamo fatto una bella figura, il punteggio medio conseguito dai nostri studenti è di 10 punti superiore alla media OCSE e ci colloca al quindicesimo posto (sono 44 i paesi che hanno svolto le prove di problem solving), siamo appena sotto Francia, Olanda, Finlandia e Regno Unito, sopra Germania, Stati Uniti, ecc.
Le indagini OCSE-PISA tuttavia non vanno considerate solo come produttrici di graduatorie, ma come fonti di utilissime informazioni sui sistemi che, nei singoli paesi, producono le diverse performance degli studenti e permettono di delineare profili nazionali delle competenze dei giovani.
In attesa che l’Invalsi rilasci il rapporto Italiano, è possibile fare alcune considerazioni.
Prima di tutto si può rilevare un dato: nonostante i tanti tagli e i risparmi, le nostre scuole sono dotate di computer e i nostri studenti ne padroneggiano l’uso. Le scuole sono state sorteggiate casualmente nel campione italiano, solo due di queste, pur avendo computer disponibili, utilizzavano programmi non compatibili con i programmi in uso per la somministrazione delle prove; fra le scuole estratte a sorte sono stati sorteggiati casualmente gli studenti che hanno fatto le prove via computer (18 su 35 sorteggiati in ogni istituzione scolastico/formativa sorteggiata), nessuno ha dichiarato di non essere in grado di utilizzare questo strumento, nessuno si è rivelato non competente all’atto dello svolgimento della prova.

Altra buona notizia: la percentuale di studenti che hanno dimostrato competenze limitatissime in relazione alle prove di problem solving (chi si colloca tra il livello inferiore al livello zero è il livello 2) sono il 21,4%, media OCSE, solo il 16,4%, media italiana. Per quanto riguarda i livelli più elevati (livello 5/6) gli italiani con una media del 10,8% si collocano appena sotto alla media OCSE che è 11,4%.
La capacità di problem solving è distribuita in modo molto più equilibrato tra i giovani, di quanto non risultino le competenze legate ad ambiti disciplinari, e soprattutto è limitata la quota di quanti evidenziano gravi difficoltà.

Meno tranquillizzante invece è il fatto che anche queste prove disegnano profili di giovani a “due velocità” che, purtroppo al solito, sono legate alla diversa collocazione geografica (Nord Ovest, Nord Est e Centro con punteggi rispettivamente di: 533, 527 e 514 stanno sopra il punteggio medio OCSE; il Sud e le Isole non superano i 486 punti) anche se, come negli altri paesi, il background socio-economico familiare sembra pesare meno sulle performance.
Il rapporto nazionale potrà/dovrà approfondire questo tema insieme alle differenze per tipologia di scuola e soprattutto alle differenze dei risultati delle ragazze rispetto ai ragazzi (il risultato più modesto delle ragazze italiane appare in controtendenza rispetto a molti dei 44 paesi che hanno svolto la prova).

Nel presentare i risultati l’OCSE esplicita le ragioni che fanno ritenere questo tipo di prova importante, in senso predittivo, della capacità delle giovani generazioni di rispondere alle esigenze che il mondo contemporaneo mette loro di fronte. Il problem solving è definito come capacità individuale d’impegnarsi in un processo cognitivo finalizzato a capire e risolvere una situazione problematica, la cui soluzione non è né ovvia né immediatamente riconducibile a routine riconoscibili.
La prova consiste nella descrizione di una situazione all’interno della quale è presente un problema (che il giovane deve saper riconoscere in quanto tale) e nella individuazione di un metodo di soluzione.

A differenza dei test più tradizionali, che fanno riferimento a conoscenze più o meno complesse, qui si tratta d’impegnarsi (l’enfasi sull’impegno, “engagement”, è molto evidente ) in un contesto che chiede di mettersi alla prova. In questo senso l’uso delle ICT, che nelle prove di problem solving per gli adulti (vedi PIAAC), richiede di muoversi in contesti ricchi d’informazioni da reperire e collocare e di usare software diversi, il problem solving per i quindicenni non punta sulla complessità e potenzialità dello strumento informatico, ma stimola l’attivazione di un processo cognitivo che usa il computer solo come mezzo e come semplificatore in alcuni passaggi (chi deve scegliere l’itinerario più adeguato in termini di tempo e di kilometri non deve fare né somme né sottrazioni, ma deve simulare lo spostamento entro uno spazio dato, riconoscendo e rispettando le condizioni richieste).
Il focus della prova sta tutto nelle barriere che si frappongono tra la situazione di partenza e l’obiettivo da raggiungere, sono queste che mobilizzano operatori e strumenti.
Il supporto informatico permette agevolmente di inserire nel corso della prova accadimenti, effetti imprevisti, che richiedono un riallineamento e una ridefinizione di operatori e strumenti, prove statiche versus prove interattive.
Il punto interessante, rispetto al quale sarà utile fare ulteriori approfondimenti, sembra essere proprio il tipo di atteggiamento mentale che il contesto e lo sviluppo della prova stessa suggeriscono; se è vero infatti che il supporto informatico ha una funzione puramente strumentale, chi risolve la prova è chiamato a “interessarsi” a quello che sta accadendo in relazione a quello che dovrà/dovrebbe accadere.

La prova, così impostata, è più motivante: lo studente deve risolvere la prova, non rispondere semplicemente, quindi s’incuriosisce e s’impegna.
Forse da queste prove potrebbe venire qualche suggerimento sull’organizzazione di situazioni di apprendimento a scuola, più motivanti e quindi più capaci d’evidenziare e coltivare le potenzialità e le capacità dei ragazzi. (Fonte : http://www.educationduepuntozero.it/studi-e-ricerche/capacita-problem-solving-capacita-coltivate-dall-apprendimento-scolastico-ancora-pisa-2012-4098019717.shtml)

giovedì 1 maggio 2014

Come si guarisce o ci si ammala con la mente

Enzo Soresi, tisiologo, anatomopatologo, oncologo, già primario di pneumologia al Niguarda di Milano. Nel libro "Il cervello anarchico" racconta casi di persone uccise dallo stress o salvate dallo choc carismatico della fede
enzo soresi

Dopo una vita passata a dissezionare cadaveri, a curare tumori polmonari, a combattere tubercolosi, bronchiti croniche, asme, danni da fumo, il professor Enzo Soresi, 70 anni, tisiologo, anatomopatologo e oncologo, primario emerito di pneumologia al Niguarda di Milano, ha finalmente individuato con certezza l’epicentro di tutte le malattie: il cervello. Negli ultimi dieci anni, cioè da quando ha lasciato l’ospedale per dedicarsi alla libera professione e tuffarsi con l’entusiasmo del neofita negli studi di neurobiologia, ha maturato la convinzione che sia proprio qui, nell’encefalo, l’interruttore in grado di accendere e spegnere le patologie non solo psichiche ma anche fisiche.
C’era già arrivato per intuizione il filosofo ateniese Antifonte, avversario di Socrate, nel V secolo avanti Cristo: «In tutti gli uomini è la mente che dirige il corpo verso la salute o verso la malattia, come verso tutto il resto». Soresi c’è arrivato dopo aver visto gente ammalarsi o guarire con la sola forza del pensiero. Primo caso: «Ho in cura una signora di Milano il cui marito, integerrimo commercialista, la sera andava a bucare le gomme delle auto. Per il dispiacere s’è ammalata di tubercolosi. Io lo chiamo danno biologico primario». Secondo caso: «Un agricoltore sessantenne con melanoma metastatico incontrò Madre Teresa di Calcutta, ricevette in dono un’immaginetta sacra e guarì. Io lo chiamo shock carismatico». Il professore ha dato una spiegazione scientifica al miracolo: «Il melanoma è un tumore che viene identificato dagli anticorpi dell’organismo, tant’è vero che si sta studiando da 30 anni un vaccino specifico. Non riusciamo a controllarlo solo perché l’antigene tumorale è talmente aggressivo da paralizzare il sistema immunitario. Nel caso del contadino ha funzionato una combinazione di fattori: aspettativa fideistica, strutture cerebrali arcaiche, Madre Teresa, consegna del santino. Risultato: il suo organismo ha sprigionato fiumi di interferoni e interleuchine che hanno attivato gli anticorpi e fatto fuori il cancro».
Come Soresi illustra nel libro Il cervello anarchico (Utet), già ristampato quattro volte, la nostra salute dipende da un network formato da sistema endocrino, sistema immunitario e sistema nervoso centrale. «Il secondo ci difende e ci organizza la vita. Di più: ci tollera. L’organo-mito è il linfocita, un particolare tipo di globulo bianco che risponde agli attacchi dei virus creando anticorpi. Abbiamo 40 miliardi di linfociti. Quando si attivano, producono ormoni cerebrali. Questa si chiama Pnei, psiconeuroendocrinoimmunologia, una nuova grande scienza, trascurata dalla medicina perché nessuno è in grado di quantificare quanti neurotrasmettitori vengano liberati da un’emozione. Io e lei siamo due esperimenti biologici che datano 4 miliardi di anni. Io sono più riuscito di lei. Perciò nego la vecchiaia. Non c’è limite alla plasticità cerebrale, non c’è limite alla neurogenesi. Esiste un flusso continuo di cellule staminali prodotte dal cervello: chi non le utilizza, le perde. Le premesse della longevità sono due: camminare 40 minuti tre volte la settimana – altrimenti si blocca il ricambio delle cellule e non si libera un fattore di accrescimento, il Bdnf, che nutre il cervello – e studiare».
Secondo il medico-scrittore, è questa la strada per allungare la vita di 10 anni. «Quando ci impegniamo a leggere o a compilare le parole crociate, le staminali vengono catturate dalla zona dell’encefalo interessata a queste attività. Se io oggi sottopongo la sua testa a una scintigrafia e poi lei si mette a studiare il cinese, fra tre anni in un’altra scintigrafia vedrò le nuove mappe cerebrali che si sono create per immagazzinare questa lingua. Prenda i tassisti di Londra: hanno un ippocampo più grande perché mettono in memoria la carta topografica di una città che si estende per 6 miglia».
Il professor Soresi è cresciuto in mezzo alle lastre: suo padre Gino, tisiologo, combatteva la Tbc nel sanatorio Vialba di Milano, oggi ospedale Sacco. Si considera un tuttologo, al massimo un buon internista, che ha scoperto l’importanza della neurobiologia studiando il microcitoma. «È un tumore polmonare che ha la caratteristica di esordire con sindromi paraneoplastiche, cioè con malattie che non c’entrano nulla col cancro: artrite reumatoide, tiroidite autoimmune, sclerodermia, reumatismo articolare. È una neoplasia che nel 100% dei casi scompare con quattro cicli di chemioterapia. Eppure uccide lo stesso nel giro di sei mesi. Era diventato la mia ossessione: non riuscire a guarire una cosa che sparisce».
Com’è possibile?
«Ci ho scritto 100 lavori scientifici e ci ho messo 30 anni a capirlo: perché il microcitoma ha una struttura neuroendocrina. La massa nel polmone scompare, ma si espande con metastasi ovunque. Ne ho concluso che la medicina non è una vera scienza. Tuttalpiù una scienza in progress».
Diciamo una scienza inesatta.
«L’ho provato sulla mia pelle nel 1950. Ero basso di statura, come adesso, e mio padre si preoccupava. Eppure le premesse genetiche c’erano tutte: lui piccolo, mia madre piccola. Mi portò dal mitico professor Nicola Pende, endocrinologo che aveva pubblicato sei volumi sul timo come organo chiave dell’accrescimento. Pende mi visitò, mi palpò i testicoli e concluse: “Questo bambino ha il timo iperplastico, troppo grosso. Bisogna irradiarlo”. Se mio padre avesse seguito quel consiglio, sarei morto. Questa è la medicina, ragazzi, non illudiamoci».
Torniamo al cervello.
«Sto aspettando di diventare nonno. Il tubo neurale della mia nipotina ha cominciato a svilupparsi dal secondo mese di gravidanza. Alla nascita il cervello non sarà ancora programmato, bensì in fase evolutiva. L’interazione con l’ambiente lo strutturerà. Ora facciamo l’ipotesi che un neonato abbia la cataratta: se non viene operato entro tre mesi, i neuroni specifici della vista non si attivano e quel bimbo non vedrà bene per il resto della vita. Oppure poniamo che la madre sia ansiosa e stressata, il padre ubriacone e manesco: lei capisce bene che i segnali ricevuti dal neonato sono ben diversi da quelli che sarebbero auspicabili. E questo vale fino al terzo anno di vita, quando nasce il linguaggio, che attiva la coscienza del sé, e la persona assume una sua identità. Di questi primi tre anni d’inconsapevolezza non sappiamo nulla, è una memoria implicita, un mondo sommerso al quale nessuno ha accesso, neanche l’interessato, neppure con la psicoanalisi. Ma sono i tre anni che ci fanno muovere».
Allora non è vero che si può «entrare» nel cervello.
«Ai tempi in cui facevo le autopsie, aprivo il cranio e manco sapevo a che cosa servissero i lobi frontali. Li chiamavamo lobi silenti, proprio perché ne ignoravamo la funzione. Molti anni dopo s’è scoperto che sono la sede dell’etica, i direttori d’orchestra di ogni nostra azione».
E graziaddio avete smesso con le lobotomie.
«A quel punto sono addirittura arrivato a fare le diagnosi a distanza. Se mi telefonavano dalla clinica dicendo che un paziente con un tumore polmonare s’era messo d’improvviso a urlare frasi sconce o aveva tentato di violentare la caposala, capivo, dalla perdita del senso etico, che era subentrata una metastasi al lobo frontale destro».
Ippocrate aveva definito il cervello come una ghiandola mammaria.
«Aveva còlto la funzione secretiva di un organo endocrino che non produce solo i neurotrasmettitori cerebrali – la serotonina, la dopamina, le endorfine – ma anche le citochine, cioè la chiave di volta dei tre sistemi che formano il network della vita. Lei sa che cosa sono le citochine?».
Sì e no.
«Sono 4 interferoni, che aiutano le cellule a resistere agli attacchi di virus, batteri, tumori e parassiti, e 39 interleuchine, ognuna con una funzione specifica. Se sono allegro e creativo libero citochine che mi fanno bene, se sono arrabbiato e abulico mi bombardo di citochine flogogene, che producono processi infiammatori. Ecco perché il futuro della medicina è tutto nel cervello. Le faccio un esempio di come il cervello da solo può curare una patologia?».
La ascolto.
«Avevo un paziente affetto da asma, ossessivo nel riferire i sintomi. Più gli davo terapie, più peggiorava. Torna dopo tre mesi: “Sono guarito”. Gli dico: senta, non abbassi la guardia, perché dall’asma non si guarisce. “No, no”, risponde lui, “avevo il malocchio e una fattucchiera del mio paese me l’ha tolto infilandomi gli spilloni nel materasso”. La manderei da un esperto in malocchi, replico io. E riesco a spedirlo dallo psichiatra Tullio Gasperoni. Il quale accerta che il paziente era in delirio psicotico. Conclusione: da delirante stava bene, da presunto normale gli tornava l’asma».
Effetto placebo degli spilloni.
«Paragonabile a quello dei finti farmaci. L’effetto placebo arriva a rispondere fino al 60% nel far scomparire un sintomo. Noi medici non possiamo sfruttarlo, altrimenti diventerebbe un inganno. Ma esiste anche l’effetto nocebo».
Esemplifichi.
«Donna di altissimo livello culturale, fumatrice accanita. Il marito, un imprenditore fratello di un noto politico, la tradiva sfrontatamente con una giovane amante. Quando la informai che aveva un tumore polmonare, mi raggelò: “Non m’interessa. L’importante è che lo dica a mio marito”. Cosa che feci, anche in maniera piuttosto teatrale. Lui scoppiò a piangere, lei sfoderò un sorriso trionfale. È evidente che due anni di stress violento avevano provocato nella donna un abbassamento delle difese immunitarie. Almeno morì contenta, sei mesi dopo. Vuole un altro esempio? Una cara amica con bronchiettasie bilaterali. Antibiotici su antibiotici. Qual era il movente? Non andava più d’accordo col marito. Per due anni non la vedo. La cerco al telefono: “Enzo, mi sono separata, vado in chiesa tutte le mattine, sto bene”. L’assetto psichico stabilizzato le ha consentito di ritrovare la salute. Continuo?».
Prego.
«Colf di 55 anni, origine salernitana, tradizionalista. Mai un giorno di malattia. La figlia le dice: “Vado in Inghilterra a fare la cameriera”. Stress di 10 giorni, ginocchio gonfio così. La lastra evidenzia un’artrosi della tibia: non s’era mai attivata, ma al momento del disagio mentale è esplosa. C’è voluto un intervento chirurgico».
Nel libro Il cervello anarchico lei riferisce di sogni premonitori.
«Sì. Viene da me uno psichiatra milanese, forte fumatore, con dolori scheletrici bestiali. Mi racconta d’aver sognato la sua tomba con la data della morte sulla lapide. Lastra e Tac negative. Era un tumore polmonare occulto, con metastasi ossee diffuse. Morì esattamente nel giorno che aveva sognato. Del resto lo psicoanalista Carl Gustav Jung mentre dormiva avvertì un forte colpo alla nuca, dopodiché gli apparve in sogno un amico che gli disse: “Mi sono sparato. Ho lasciato il testamento nel secondo scaffale della libreria”. L’indomani andò a casa dell’amico: s’era suicidato e la busta era nel posto indicato».
I miracoli secondo lei che cosa sono? Eventi soprannaturali o costruzioni del cervello?
«Io sono per un pensiero laico. Credo nella forza della parola. Se noi due ci parliamo, piano piano modifichiamo il nostro assetto biologico, perché la parola è un farmaco, la relazione è un farmaco. Di sicuro credere fa bene. Un gioielliere milanese mi portò la madre, colpita da metastasi epatiche. Potei prescriverle soltanto la morfina per attenuare il dolore. La compagna brasiliana di quest’uomo si chiama Maria di Lourdes e ha una sorella monaca in una congregazione religiosa che nella foresta amazzonica prega a distanza per le guarigioni. Maria di Lourdes telefonò al suo uomo dal Brasile: “Di’ alla mamma che le suore pregheranno per lei all’ora X del giorno X”. Da quel preciso istante la paziente oncologica, che prima urlava per il dolore, non soffrì più».
Come si mantiene in buona salute il cervello?
«Ho un cugino architetto, mio coetaneo, che sembrava un rottame. S’è iscritto all’università della terza età, ha preso passione per la lingua egiziana, tutti i giorni sta cinque ore davanti al computer, ha già tradotto quattro libri in italiano dall’egiziano. È ringiovanito, ha cambiato faccia».
Sappiamo tutto del cervello?
«Nooo! Sul piano anatomico e biologico sappiamo intorno al 70%. Ma sulla coscienza? Qui si apre il mondo. Lei calcoli che ogni anno vengono pubblicati 25.000 lavori scientifici di neurobiologia».
Allora come fa una legge dello Stato a dichiarare morto un organo che per il 30% ci è ignoto e della cui coscienza sappiamo poco, forse nulla?
«Siccome si muove per stimoli elettrici, nel momento in cui l’elettroencefalogramma risulta muto significa che il cervello non è più attivo».
Ma lei che cosa pensa della morte cerebrale?
«Mi fermo… Però ha ragione, ha ragione lei a essere così attento alla dichiarazione di morte. Nello stesso tempo c’è un momento in cui comunque bisogna dichiarare la morte di un individuo dal punto di vista biologico».
Prima del 1975 dichiaravate la morte quando il cuore si fermava, l’alito non appannava più lo specchio, il corpo s’irrigidiva.
«Eh, lo so… La morte cerebrale consente di recuperare gli organi per i trapianti».
Ha mai sperimentato su di sé disagi psichici che hanno influenzato il suo stato di salute?
«Nel 1971 ho sofferto moltissimo per la morte di mia moglie Marisa, uccisa da un linfogranuloma a 33 anni. Devo tutto a lei. Era una pittrice figurativa che andò a studiare negli Stati Uniti appena sedicenne e indossava i jeans quando a Milano non si sapeva manco che esistessero. La malattia cambiò la sua arte. Cominciò a dipingere corpi sfilacciati, cuori gettati sopra le montagne. Fu irradiata in maniera scorretta da un grande radioterapista dell’epoca, per cui nell’ultimo anno di vita rimase paralizzata. Nostro figlio Nicolò, nato nel 1968, l’ho cresciuto io. Marisa mi ha lasciato un modello perfetto: un bambino che riesce a sopportare persino la perdita più straziante solo perché la mamma ha saputo far sviluppare armonicamente il suo cervello nei primi tre anni di vita»

testo tratto dal libro del dr. Enzo soresi “il cervello anarchico”