lunedì 27 agosto 2012

In Libia la strage silenziosa dei Tawergha di Monica Ricci Sargentini

Oggi il nostro blog ospita un articolo del collega Andrea de Georgio che è appena tornato da un viaggio in Libia dove ha documentato la persecuzione della minoranza tawergha.  (di Andrea de Georgio )

Tawergha è una città fantasma. Case distrutte, segni di vita abbandonata da poco, vie deserte, cani randagi e carcasse di macchine bruciate ad ogni angolo (nella foto sopra di Luca Pistone). Il silenzio rimbomba. Il vento alza la polvere. L’odore del fuoco che un anno fa ha ridotto questa cittadina del nord della Libia ad un museo degli orrori si sente ancora forte, insieme alla puzza di morte. Ad agosto 2011, quando la guerra stava per volgere al termine, circa 4000 miliziani rivoluzionari di Misurata hanno attaccato Tawergha, borgo abitato da 35 mila persone (discendenti degli schiavi neri arrivati in Libia nel XVIII secolo) a pochi chilometri, distruggendolo casa per casa a colpi di artiglieria pesante e costringendo intere famiglie alla fuga.

Abd al Salim, capo della qatiba (brigata rivoluzionaria, milizia) Malik Idris, fra le più spietate di Misurata, quel giorno di agosto sfogava, alla guida dei suoi giovani rivoluzionari, tutta la rabbia e l’odio accumulato in un anno di guerra civile contro i tawergha (http://www.amnesty.org/en/library/info/MDE19/007/2012/en), vicini e nemici di sempre. “Non solo questi negri erano dalla parte di Shashufa (“capellone, dai capelli ricci” dispregiativo di Gheddafi, ndr) e hanno partecipato all’assedio di Misurata. Hanno stuprato le nostre donne, le nostre figlie, le nostre sorelle. Questo è il loro crimine, e noi non possiamo perdonare. Per questo li abbiamo cacciati e non li faremo mai tornare”. Abd al Salim, come molti libici, giura di aver visto coi propri occhi i video che provano gli abusi sessuali dei tawergha nei telefonini sequestrati durante la guerra. Ma questi video non verranno mai mostrati e le vittime non parleranno.

Per le società musulmane lo stupro è un tabù, uno dei più gravi crimini possibili che sporca l’onore dell’intera famiglia della vittima. Un proverbio libico recita: “La donna è come un bicchiere di latte, se si sporca si vede subito”. L’Onu e diverse organizzazioni internazionali per i diritti dell’uomo hanno condotto delle inchieste ad hoc senza trovare prove tangibili dei crimini dei tawergha. Abd al Salim con una mano guida il pick-up e con l’altra, dal finestrino, spara colpi a casaccio col kalashnikov. Khaled, rivoluzionario ventenne in pantaloncini e infradito, carica un altro fucile pronto a passarlo al capo. “Veniamo qui ogni settimana. Controlliamo che non ci sia nessuno, spariamo un po’ e portiamo via ciò che resta nelle case. Se troviamo un tawergha lo uccidiamo sul posto, come un cane”.

La guerra civile, in Libia, è finita da più di 8 mesi. Ma il tempo della riconciliazione, della rinascita e del ritorno alla normalità sembra ancora lontano, almeno da Tawergha. Nonostante il 7 luglio si siano svolte (pacificamente) le prime elezioni libere della storia del Paese – che porteranno il parlamento eletto a scegliere un comitato di esperti col compito di redigere la nuova costituzione – molte ferite di guerra rimangono aperte e sanguinanti. Fra tutte la questione delle minoranze appare un punto cruciale che né il governo di transizione né il neonato esecutivo guidato dal partito di Mahmoud Jibril (l’Alleanza delle forze nazionali che ha ottenuto quasi il 50% dei voti) hanno mostrato di voler affrontare con determinazione.

Mashasha, tuareg, tabu, berberi e tawergha pur godendo dello status di cittadini a tutti gli effetti (che manca, invece, alle migliaia di migranti presenti in Libia) soffrono ancora di vessazioni, arresti arbitrari, detenzioni illegali e torture, come riporta un recente report di Amnesty International. Il vuoto di potere lasciato dalla caduta del regime di Gheddafi, durato 42 anni, è occupato oggi dalle milizie rivoluzionarie. Migliaia di giovani e giovanissimi armati fino ai denti e guidati da un manipolo di signori della guerra che, approfittando dell’assenza di polizia e rifiutando di riconsegnare le armi e di essere assorbiti nel neonato esercito nazionale, dettano legge e “garantiscono” la sicurezza del Paese. I 35 mila tawergha che vivono in campi sparsi in tutta la Libia sono il bersaglio preferito della vendetta dei miliziani.

Il Marina Accademy, una vecchia base militare dell’esercito di Gheddafi occupata durante la guerra, è il campo profughi più grande del Paese. E’ una struttura fatiscente che si affaccia a picco sul mare di Jansour, quartiere occidentale di Tripoli, e ospita 2106 persone, tutte scappate da Tawergha in fiamme. L’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) opera insieme ad altre organizzazioni internazionali per dare assistenza alla popolazione del campo. “Cerchiamo di fare il possibile per queste persone che vivono in condizioni disperate, ma non è facile. Nella Libia post guerra civile la questione dei tawergha è uno dei tabu più difficili da scalfire”.

Anis, giovane libico che lavora coi tawergha di Tripoli come operatore umanitario dell’Unhcr, racconta che nei vari campi in cui sono “ospitati” i quasi 74 mila libici “sfollati interni” della guerra (i cosiddetti Internal displaced people, di cui la metà sono tawergha) vengono attaccati dai miliziani con cadenza settimanale. Gli accampamenti sono sorvegliati da gruppi di rivoluzionari che, quando le milizie di Misurata attaccano, non battono ciglio. Gli uomini delle qatibe entrano, sparano e prelevano giovani uomini che spariscono nel buio delle carceri illegali per mesi, tornando al campo con chiari segni di torture.

Come Mansour Ghiliwan, prelevato al Marina Accademy di Jansour durante l’attacco del 6 febbraio 2012, uno dei più violenti, in cui tre persone hanno trovato la morte (una bambina di 10 anni, una donna di 56 e un sessantenne). “Erano una cinquantina. Sono entrati in casa e mi hanno caricato su un pick-up con altre sei persone del campo. Ci hanno scaricato in un posto isolato, ci hanno fatti mettere contro un muro e ci hanno fucilato. Quando si sono accorti che ero ancora vivo mi hanno picchiato e portato alla prigione Madrasa al Wahida, dove sono stato rinchiuso in un container 12 giorni con una pallottola nella gamba senza acqua né cibo. Se non fosse per Medici Senza Frontiere che mi ha trovato, liberato e operato sarei morto in quel container”. Mansour si sposta per il campo su una sedia a rotelle. La gamba destra è gonfia e livida, porta i segni indelebili della cancrena e dell’operazione. Anche la sinistra è ferita.

“Non ho fatto niente durante la guerra, lo giuro. Ci perseguitano solo perché siamo tawergha e siamo neri. Per loro tutti i neri sono stati mercenari di Gheddafi. Noi vogliamo solo tornare alle nostre case”. Mentre parla si avvicina Ali Arous Abd al Rahman, il portavoce del campo di Jansour, mostrando fotocopie di cartelle mediche e documenti vari a testimonianza dei crimini subiti dalla sua gente. “Questa è pulizia etnica. Da una parte il governo di transizione ci fa eleggere un nostro rappresentante per il nuovo parlamento. Dall’altra permette che i cosiddetti rivoluzionari ci attacchino e ci sequestrino. Hanno ucciso un Gheddafi per crearne altri mille”.



 

Nessun commento:

Posta un commento